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Palme ricurve

ASSAGGIO DEL VOLUME

Avevo indovinato, č arrivato un camion davanti all’ospedale. Che folla c’č intorno! Si vedono solo ombre che stanno a guardare e piů avanti figure con la testa avvolta in un fazzoletto che tengono in braccio un bambino. Da dove viene tutta questa gente a quest’ora di notte? Non hanno né auto, né biciclette, all’improvviso sono apparsi dal buio per poi

scomparire di nuovo uno dopo l’altro. La dottoressa Hicks ha giŕ cominciato a dare gli ordini. Ovviamente non era stata avvertita neppure lei ma ha sentito il rumore.
- Hello, come sta? -, la saluto.
- Bene, e lei? Mister Tavasz,
č arrivato il primo camion, i feriti sono ancora su. Non so in quanti saranno, al telefono mi hanno detto una ventina. Abbiamo spostato una parte dei pazienti dal padiglione della malaria a quello degli infetti, cosě ci sono sette letti per gli uomini e tre per le donne. Nel reparto di chirurgia ce ne sono due per uomini e uno per una donna. Gli altri possono andare al reparto pediatrico. Abbiamo spostato qualche bambino in medicina interna. Non sono riuscita a chiamare le altre infermiere. Di flebo ne abbiamo ma sangue solo pochissimo.
Ha risparmiato il mio reparto di chirurgia da quell’inferno, sono il suo privilegiato, si vede a miglia di distanza.
- Dopo la prima notte liberer
ň qualche letto nel mio reparto cosě ci mettiamo i feriti -, le rispondo.
- Come vuole.
- Dov’
č Martin, l’ha visto per caso?
- Č sparito. Probabilmente č andato a Tanga a trovare suo fratello per il fine settimana. Il dottor Kiango č qua. Se serve lui potrebbe darci una mano in sala operatoria.
Kiango?
Ma se č quasi un bambino! Un tirocinante come lo ero io da neolaureato quando ho cominciato a lavorare piů di dieci anni fa. Posso proprio dire che sono in buone mani con lui.
- Me li lasci visitare a me prima! -, le dico.
Sono in
tanti lě a guardare ma solo in pochi ad aiutare. Nel buio non riesco a distinguere il nostro personale dalla gente. Un uomo, forse un nostro barelliere, sta seduto sul bordo del camion aspettando di fare qualcosa. Voglio salire, mi appendo alla barriera di legno, monto sul parafango, cerco di scavalcare. Una scarpa scivola, urto contro il lato del camion, mi scortico le braccia con le quali mi reggevo. Bestemmio paurosamente in ungherese, finalmente sono su. Riconosco il nostro barelliere, č un po’deficiente. Ride pure adesso, lo vedo da come gli brilla il viso nel buio. Non mi saluta nemmeno.
Sul cassone da una parte e dall’altra sono distesi i feriti. Un odore acre mi penetra nel naso:
č gasolio; ci sono anche degli ustionati, il loro odore non si puň confondere con nessun altro, sento anche la puzza dei vestiti sporchi, insanguinati. Alcuni si lamentano a voce bassa. Uno se ne sta rannicchiato in un angolo, deve stare meglio se č riuscito ad allontanarsi dagli altri. Chiedo una torcia, li esamino.
Se ne stanno lě come in una fossa dopo un bombardamento. Uno guarda verso la luce. Li conto, ce ne sono undici. Sono tutti uomini. Laggiů sono arrivate le barelle con le ruote, tutte e due. C’č anche qualche barella in tessuto sorretta da bastoni ai lati. Chiedo di spalancare il portellone posteriore. Adesso ci vedo meglio. Alcuni cominciano a supplicare facendo cenni con le braccia. Ordino: tutti devono scendere, uno dopo l’altro, prima sulle barelle, e poi dirň chi dove deve andare.
- Anche i morti? -, domanda un aiutante.
- S
ě! Tutti! -, rispondo.

- I morti, e perché?
Non gli rispondo nemmeno. Faccio solo un cenno che voglio vederli tutti qui. Tutti gli aiutanti salgono e si mettono a scaricare i feriti sanguinanti. Scendo dal furgone e guardo il primo: grida disperatamente e ha il braccio sinistro contorto in una posizione innaturale. Voglio assisterlo ma l’anziana lady inglese mi precede non facendo caso al sangue che le dall’alto le cola imbrattandole il vestito. Il primo ferito sta sulla prima barella, lo visito velocemente e la dottoressa Hicks gli appende il numero 1, poi arriva il secondo...


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